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Lepa Radic
di Olga Maira Zannoni

Faceva freddo. Sentii dei rumori, sembravano urla e spari. Sentii la paura percorrere tutto il mio corpo e poi un brivido.In un solo colpo buttarono giù la porta. Era la fine.

“Veloce!!! Non c’è tempo da perdere, andate sul carro fuori. Subito!!!”.

Stavano assaltando il carcere. Non sapevo chi fossero, ma erano contro gli Ustascia, contro i fascisti. Erano dalla nostra parte.

L: Dai! Su!

R: (Sospira) Soffro di vertigini! Manca tanto?

L: Ci siamo… l’ultimo sforzo, non guardare giù però, fissa solo la roccia.

R: Uff…

L: Eccoci!!

Lepa mi tirò su con un ultimo strattone.

R: Santo cielo! Non ho mai visto niente di simile! È bellissimo!

L: È tutto così…  vasto, ma così vicino. Ti fa sentire libera!

Uno stormo di uccelli attraversò la scena. Guardai Lepa e per un po’ non riuscii a dire altro.

R:  Ma… Dove sta il confine?

L: (Sorridendo)  Non esiste il confine, non c’è nessun limite. Ti ho portato qui perché volevo che tu conoscessi “il mio posto”.

La fissai per qualche secondo mentre guardava davanti a sé, poi le cercai la mano con la mia e gliela strinsi.

Lepa aveva la mia età, solo di qualche mese più grande, ma spesso mi faceva sentire piccolo piccolo.

L: Ieri hanno chiuso la sede del Partito, lo sapevi?

R: Sì… mi dispiace.

L: Non importa… Tanto non durerà a lungo questo regime.

Qualche tempo dopo la presero insieme ad altri militanti comunisti, la portarono in carcere. Credevo che non l’avrei mai più vista. Fu lei a non rivedermi più.

Il giorno dopo averci liberato ci dissero di risalire sul carro, ci avrebbero portato in un posto sicuro. Non ci andai. Gli dissi che non serviva a nulla cominciare una vita da fuggitiva se non potevo migliorare le cose. “Portatemi con voi”. Quella stessa sera proseguimmo a piedi fino all’alba, poi ci nascondemmo di nuovo, e così per 7 giorni.

7ᵃ compagnia, 2° distaccamento Karajiskj, erano un gruppo di partigiani.

Sapevo di poter morire, ma volevo unirmi alla lotta attivamente, non lavare panni sporchi.

Accettai di fare la crocerossina per un anno e mezzo, ma nel frattempo, imparai a sparare, a nascondermi nei boschi, a riconoscere un fascista. Imparai a curare le ferite, ma vidi anche i miei più cari compagni morire davanti ai miei occhi. Oltre alla paura, la rabbia mi cresceva sempre di più nel petto.

Nel febbraio del ’43, dopo poco più di due anni, sono stata strappata ai miei compagni con la stessa forza con cui hanno strappato la democrazia al mio paese. Eravamo ai margini del fiume Neretva, nei colli, sopra il ponte.

Il giorno dopo mi svegliai diversa. Fuori faceva freddo, la cella era umida, non riuscivo a sentire i piedi e avevo le mani gelate. In quel momento mi venne in mente tutto il percorso che avevo fatto per arrivare là. Quante persone avevano attraversato la mia vita, “chissà dove saranno adesso, se ci rivedremo”.

Sentii il rumore dei passi dei soldati nazisti che si avvicinavano alla porta. Il folto mazzo di chiavi lanciato in aria dal soldato faceva un rumore stridente, come la risata cinica di chi ti tiene in ostaggio.

Erano in cinque. Cinque contro una. “Non ho le forze. Non posso più resistere”.

Mi portarono un piatto di zuppa calda. Non lo presi. Mi venne offerto un pezzo di pane. Non lo accettai. Mi venne offerta la libertà: “Ci bastano i nomi dei leader e membri del Partito”.

“Non sono una traditrice del mio popolo. Coloro di cui mi chiedete, si riveleranno quando riusciranno a spazzare via tutti voi malfattori, fino all’ultimo uomo”.

Ora sono qui, cammino verso la mia fine. È inverno, così come in principio. Hanno legato la corda ad un ramo non molto grosso, ma conosco quegli alberi, sono forti, resistono. Ci sono due casse sotto la corda…Sarà l’ultima salita, la più bassa, ma la più faticosa.

Da quassù non vedo volti conosciuti. Meglio, sono salvi.

Mi sono fermato a lavorare nel campo da quelle parti. Sapevo che c’era stato uno scontro tra i partigiani ed i tedeschi e che ne avevano catturato qualcuno.

Faceva freddo. Avevo visto che un gruppo di soldati si aggirava intorno alla piazza.

-Stanno preparando un’impiccagione.

-Chi è la vittima?

Aveva una camminata goffa, il corpo curvo per i polsi legati, la testa abbassata, ma lo sguardo in avanti, deciso. Riconobbi quei cappelli neri e gli occhi furbi.

“Oh mio dio è Lepa!”.

Non potevo correre verso di lei. Rimasi fermo.

“Non può essere lei!”

L’ho vista salire sulle casse, sotto la corda. In quel momento mi sono ricordato di quando mi portò sulla montagna. Volevo prenderle la mano e scappare e dirle io stavolta “dai, su, un ultimo sforzo”.

Mi avvicinai, ma non mi vide, la sua vista era offuscata, pensai che davanti agli occhi avesse solo le immagini di tutto ciò in cui aveva creduto.

Non fu veloce. Mi sentii chiudere lo stomaco, volevo urlare, piangere, sparire. Ancora oggi sento il senso di impotenza per non averle potuto salvare la vita. Vorrei soltanto che sapesse che sì… c’è riuscita: l’Ustascia non c’è più.

“Lunga vita al Partito Comunista e ai Partigiani! Combattete, gente, per la vostra libertà! Non arrendetevi ai malfattori! Sarò uccisa, ma c’è chi mi vendicherà”.

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